La traduzione del “Padre nostro”

Perché si continua a dire «rimetti i nostri debiti» e non «perdona le nostre offese»? Non sarebbe poi meglio dire «non abbandonarci alla tentazione»?   don Antonio M. – Vittorio Veneto

La versione liturgica «rimetti i nostri debiti» è maggiormente fedele all’originale greco, che gioca sull’analogia tra debito e peccato/offesa: in realtà il concetto di debito è più ampio di quello di peccato, così che la richiesta può includere anche il debito contratto con Dio per i doni da lui ricevuti immeritatamente.
La successiva invocazione, «non ci indurre in tentazione» – ancora in uso nella liturgia – è una traduzione servile del greco (il verbo è eisenenkes, “immettere/introdurre”), che in più rischia di sollevare problematiche teologiche (cfr. Gv 1,13: «Dio non tenta nessuno»).
Il verbo greco forse traduce malamente un originale semitico e dovrebbe corrispondere a testi come Salmi 140[141],4: «Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori».
Il senso dell’invocazione sarebbe dunque «non ci lasciare avvolgere e soffocare dalla tentazione»; l’interpretazione dei Padri è su questa linea; d’altronde l’ultima versione della Cei (2008) traduce ora proprio con «non abbandonarci alla tentazione».

[Famiglia Cristiana del 04/03/2012]

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