Il Vangelo ammonisce a non farsi chiamare padre, ma tra noi abbondano i titoli, anche in ambiente religioso. Luciano G.
Per l’evangelista Matteo la trasformazione del cuore conta più dell’osservanza del precetto (cf. Mt 15,10-20).
Ecco perché invita scribi e farisei a non farsi chiamare “padre e maestro” (Mt 23,8-9).
Lo stesso pericolo è sempre presente, anche nei membri della Chiesa: una maggiore sobrietà e semplicità nei titoli ecclesiastici sarebbe senz’altro più in linea con le indicazioni evangeliche; d’altra parte sarebbe ingenuo pensare che eliminare tutti i titoli onorifici e le espressioni di riverenza nella Chiesa renda automaticamente immuni dalla tentazione del dominio sulle persone e del potere per sé stesso.
Se, invece, tutti coloro che, per un residuo di tradizione, ancor oggi si sentono chiamare “padre” dalla gente (o con altri appellativi ancora più estranei alla consuetudine di rapporti fraterni), pensassero quale umiltà e sacrificio comporta quel titolo, esattamente l’umiltà del Messia crocifisso che si fa ultimo e servo di tutti nell’abbassamento scandaloso della croce (cf. Mt 23,11), allora forse il pericolo sarebbe già più lontano.
[Famiglia Cristiana del 13/06/2010]