La modifica nel Padre nostro si deve a un problema teologico o di traduzione?
«Possiamo dire che l’uno si intreccia con l’altro. In questo caso, il problema teologico è suscitato dalla versione liturgica tuttora in uso. “Non ci indurre in tentazione” deriva dal latino indúcas, che a sua volta è una traduzione fin troppo letterale del testo originale in greco eisenénkēs, verbo che significa “introdurre”, “immettere”, “far entrare”. Questa formulazione suona però ambigua al nostro orecchio, perché può farci pensare che sia Dio stesso colui che istiga al male. Ma in altri passi biblici è espressa la convinzione contraria: la Lettera di Giacomo afferma che “Dio non tenta nessuno” (Giacomo 1,13-15). Fatta questa precisazione, riconosciamo che Dio può permettere che l’uomo venga messo alla prova dal tentatore, come accade a Giobbe o allo stesso Gesù nel deserto».
Quindi l’equivoco nasce dalla traduzione, prima greca e poi latina. Tuttavia Gesù non parlava né greco né latino…
«Gesù avrà insegnato ai suoi discepoli il Padre nostro in aramaico e il verbo greco eisphérō probabilmente traduce un termine semitico che va compreso alla luce di altre preghiere bibliche. Nel Salmo 140, ad esempio, si chiede: “Non lasciare che il mio cuore si pieghi al male e compia azioni inique con i peccatori”. Il senso dell’invocazione del Padre nostro è dunque questo: “Non permettere che entriamo — e soccombiamo — nella tentazione”. In effetti, in un altro passo, Gesù raccomanda ai suoi discepoli: “Pregate per non entrare in tentazione” (Matteo 26,41)».
La traduzione «Non abbandonarci alla tentazione» è un buon compromesso?
«Ogni traduzione rischia sempre di essere imperfetta. La scelta della Conferenza episcopale italiana si distacca considerevolmente dall’originale, ma ha il vantaggio di evitare il malinteso teologico. Di certo ha influito su questa scelta anche il fatto di uniformarsi alla formulazione già adottata nella traduzione ufficiale della Bibbia italiana del 2008».
Come si è tradotto questo passaggio del Padre nostro in altre lingue europee?
«Negli anni scorsi già in spagnolo e in francese — le lingue più vicine all’italiano — le Conferenze episcopali avevano apportato modifiche analoghe. Lo spagnolo ha optato per “Non lasciarci cadere in tentazione”, mentre nella lingua francese suona “Non lasciarci entrare nella tentazione”». Nel nuovo Messale anche la traduzione del Gloria è cambiata. Non più «pace in terra agli uomini, di buona volontà», ma «agli uomini, amati dal Signore».
Aggiornamento “buonista” o maggiore fedeltà al testo?
«Anche in questo caso, la precedente traduzione italiana non era fatta dall’originale greco, ma dal latino pax in hominibus bonae voluntatis, che però era poco fedele al greco, e lasciava quasi intendere che la pace fosse un risultato dell’agire morale degli uomini. Nell’originale greco troviamo la parola eudokía, che significa “compiacenza” o “benevolenza”. Si tratta soprattutto della compiacenza di Dio verso l’uomo, per cui la frase è da intendere in questo senso: “Pace agli uomini oggetto della compiacenza — cioè dell’amore salvifico — di Dio”. Anche in questo caso si è adottata la traduzione ufficiale già modificata nella Bibba Cei 2008».
Ci sono altri passaggi del Messale Romano che avrebbero meritato di essere rivisti e tuttavia non lo sono stati?
«Sì. Conosciamo bene le parole pronunciate sul pane al momento della consacrazione: “Questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”. Quelle due parole — “in sacrificio” — sono assenti nell’edizione del Messale romano in latino (quod pro vobis tradetur) così come nel testo greco del Vangelo secondo Luca (22,19: hyper hymōn didómenon, “dato per voi”). Questa aggiunta in lingua italiana — che non trova alcun riscontro nelle traduzioni dei messali inglese, tedesco, francese, spagnolo, portoghese e altre — induce a interpretare la donazione di Cristo in prospettiva sacrificale-cultuale. Eppure i testi del Nuovo Testamento relativi all’istituzione dell’Eucaristia non utilizzano mai il lessico tecnico sacrificale-cultuale».