Bibbia e archeologia, lo spirito con cui leggere le due fonti

Da tempo gli studi archeologici in Israele hanno evidenziato che alcuni eventi fondamentali descritti nella Bibbia non hanno riscontro nei dati provenienti dagli scavi. Non si dovrebbero forse divulgare di più questi dati, nonostante possano mettere in dubbio l’affidabilità storica del testo sacro? MARCELLO

La domanda tocca il tema dibattuto del rapporto tra la sacralità del testo biblico per i credenti (e implicitamente della verità “divina” dei fatti in esso raccontati) e i dati della scienza storica (che segue criteri razionali). Il magistero, specialmente a partire dalla Dei Verbum (concilio Vaticano II), ha sancito che la verità da ricercare nella Bibbia non è quella scientifica e nemmeno necessariamente quella indagata dalla storiografia moderna, ma quella teologico-salvifica: «I libri della Scrittura insegnano con certezza, fedelmente e senza errore la verità che Dio, per la nostra salvezza, volle fosse consegnata nelle sacre Scritture» (Dei Verbum 11). Gli autori antichi non avevano come primo obiettivo quello di riportare con fedeltà i fatti come erano davvero avvenuti, quanto piuttosto quello di far emergere in essi il significato esistenziale e teologico valido per i destinatari attuali. Per cui non c’è da meravigliarsi se gli autori dei racconti biblici tendano a presentare una storia religiosa idealizzata, di consolazione o esortazione per l’oggi della comunità in cui si trovavano a operare. Questa prospettiva va tenuta presente quando si è di fronte a narrazioni riguardanti un’epoca precedente a quella in cui anche i dati extrabiblici, come quelli dell’archeologia, iniziano a offrire punti di contatto con quanto riportato dal testo sacro. Ad esempio, a livello storiografico sappiamo poco o nulla dell’epoca precedente il formarsi nella terra di Canaan di due regni separati, dapprima il regno del Nord (Israele, a partire dal IX sec. a.C.) e poi, soprattutto dopo la sua caduta nel 721, quello del Sud (Giuda). Le narrazioni che riguardano epoche precedenti, senza escludere che possano contenere memorie di eventi accaduti, hanno lo scopo di rafforzare nel popolo la coscienza e la fiducia di essere eletto e guidato da Dio di fronte a ciò che minaccia la sua esistenza e la sua fede. Non mancano a tale riguardo pronunciamenti ufficiali. Il documento della Pontificia commissione biblica del 2014 su Ispirazione e verità della sacra Scrittura, riguardo ai patriarchi afferma: «Come i popoli circostanti, gli israeliti del V-IV secolo a.C. hanno cominciato a raccontare il loro passato. Si trattava di racconti che riprendevano tradizioni antiche, non soltanto per dire che essi avevano un passato più o meno ricco, come gli altri popoli, ma anche per interpretarlo e valutarlo con l’aiuto della loro fede» (n. 106); «quando il narratore o i narratori biblici descrivono le promesse divine e la risposta di fede del patriarca Abramo (Genesi 15,1-6), non rinviano a fatti la cui trasmissione secolare sarebbe stata assolutamente sicura. È piuttosto la loro esperienza di fede che ha permesso loro di scrivere nel modo in cui hanno scritto, per esporre il significato globale di quegli eventi e invitare i loro connazionali a credere nella potenza e nella fedeltà di Dio… Più che i fatti concreti, conta la loro interpretazione, il senso che ne emerge nell’oggi della rilettura» (n. 107). Riguardo al racconto biblico dell’Esodo, lo stesso documento afferma che esso «non ha l’intento di trasmettere il resoconto degli antichi avvenimenti secondo la modalità di un documento di archivio, ma ben più di fare memoria di una tradizione che attesta che oggi, come ieri, Dio è presente a fianco del suo popolo per salvarlo» (n. 108). Per maggiori informazioni sul tema rimando al testo di Paolo Merlo Storia d’Israele e Giuda nell’antichità (San Paolo, 2022).

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