C’è un tempo per ogni cosa

 

©  Pino Pulcinelli   2003

 

 

Quanto ad afferrrare il punto di intersezione tra l’eterno e il tempo,

si tratta di un’occupazione da santo,

non tanto un’occupazione ma qualcosa che è donato e ricevuto,

in un morire d’amore durante la vita,

nell’ardore, nell’abnegazione e nell’abbandono di sé.

 

                                       Thomas S. Eliot, da: Quattro Quartetti

 

“Non ho tempo”

Il tempo: lo so finché non mi domandi cos’è...

Ma la Bibbia, parola ispirata da Dio, cosa ci dice sul tempo?

DIO HA FATTO BELLA OGNI COSA A SUO TEMPO:
LA RIFLESSIONE DEL QOHELET (3,1-15)


Affinando lo sguardo...

Eternità e gioia di vivere

“Godersi la vita”, dono di Dio

 

 

 

“Non ho tempo”

 

Il più grande tiranno di cui specialmente noi occidentali subiamo l’oppressione è il tempo: oggi più che mai tutto si misura con l’orologio, le ore lavoro, il part-time, la pausa pranzo, il tempo che è denaro, ma anche il tempo da dedicare agli amici, alla famiglia, ai figli...

Ed è strano - e per certi versi nuovo - questo fenomeno: con l'aiuto delle macchine e della tecnologia in generale, l'uomo riesce a fare sempre più cose in meno tempo, aumenta la velocità degli spostamenti delle persone, delle merci e delle informazioni, aumentano i ritmi di produzione... insomma, si risparmia un sacco di tempo...

Tempo prezioso quello risparmiato, “spendibile” sotto la voce magica: “tempo libero”.

Ma ecco che per una sorta di maleficio questo “spazio” vuoto rischia di ridiventare subito pieno, anzi, intasato di altre cose, altrettanto o a volte addirittura più stressante del tempo passato a travailler...

 

Ecco perché si continua a dire - forse più di prima - "Non ho tempo", “non so a chi dare il resto”, “mi ci vorrebbe un giorno di 48 ore!"

Insomma, in questo modo la vita può essere davvero quella cosa che ti succede mentre sei impegnato a fare qualcos'altro. La difficoltà viene forse anche dal fatto che si ha paura di fermarsi, di lasciare che dalla pausa e dalla riflessione sorgano domande scomode, questioni irrisolte e insabbiate...

Credo che a ognuno di noi capiti di avvertire questo malessere, di sentire un po' di nostalgia per una vita diversa, anche se poi magari non riesce ad immaginarsela concretamente, una vita in cui il tempo non sia più tiranno, ma a servizio, a disposizione dell’uomo e delle sue relazioni vere.

 

Scriveva E. Levinas: “La dialettica del tempo è la dialettica stessa della relazione con gli altri”.

Per la “sanità” dell’uomo e delle sue relazioni è sempre più necessario che all’ottica angusta e soffocante del “tutto e subito” si contrapponga la chiaroveggente saggezza di chi – imparando dalla natura stessa delle cose - pazientemente sa costruire le relazioni, aspettando i tempi di ciascuno e cogliendo sempre più la verità e la bellezza dei momenti dati.

Se volessimo racchiudere in uno slogan la necessità di una vera umanizzazione del tempo, al “non ho tempo” di un’esistenza sempre più frammentata e accelerata, andrebbe sostituito il "ho tempo per te": il rapporto con il “Tu” vissuto in gratuità, qualifica il mio tempo e fa in modo che esso diventi prezioso e assuma una dimensione di eternità.

D’altra parte non bisogna diventar vecchi per fare la scoperta in parte paradossale che il tempo – pur essendo misurabile e quantificabile dalle leggi fisiche - è parimenti una categoria psicologica, condizionata cioè dalla percezione soggettiva, per cui un minuto può sembrare non passi mai e invece gli anni volino come un soffio…

È il tempo altresì che prova la verità di certi impegni presi una volta per tutte, come quelli di uno stato di vita definitivo: “tu sei sacerdote per sempre”; oppure : “prometto di esserti fedele sempre, di amarti e onorarti tutti i giorni della mia vita… per sempre”.

 

 

Il tempo: lo so finché non mi domandi cos’è...

 

La domanda sul tempo ha sempre affascinato i filosofi; Platone ha trattato specialmente il suo rapporto con l’eterno, Aristotele quello con lo spazio. Agostino d’Ippona divenuto cristiano, da grande pensatore qual era, non ha riflettuto sul tempo in una delle tante sue opere, ma in quella più personale e esistenziale, le Confessioni, dedicando a questo tema praticamente tutto il Libro XI.

Cos’è il tempo? Chi saprebbe spiegarlo in forma piana e breve? - si chiede Agostino - Chi saprebbe formarsene anche solo il concetto nella mente, per poi esprimerlo a parole? Eppure, quale parola più familiare e nota del tempo ritorna nelle nostre conversazioni? ...

Cos’è dunque il tempo? Se nessuno m’interroga, lo so; se volessi spiegarlo a chi m’interroga, non lo so. Questo però posso dire con fiducia di sapere: senza nulla che passi, non esisterebbe un tempo passato; senza nulla che venga, non esisterebbe un tempo futuro; senza nulla che esista, non esisterebbe un tempo presente... (XI, 14.17).

 

Anche gli scienziati, dal loro punto di vista, si sono posti ripetutamente il problema senza essere in grado di giungere ad una risposta che sia pienamente soddisfacente. La Teoria della Relatività Generale elaborata da Einstein ha comunque immesso definitivamente nella fisica la coordinata temporale tra quelle spaziali, con implicazioni determinanti per la cosmologia: sia lo spazio che il tempo hanno un inizio (G. Battistoni); questo avvalorerebbe a sua volta la teoria del Big Bang con i suoi risvolti creazionisti.

 

 

Ma la Bibbia, parola ispirata da Dio, cosa ci dice sul tempo?

 

Per la visione biblica, la storia – quella che nell’ottica di fede è sempre historia salutis - scaturisce dall’incontro tra Dio e l’uomo, tra un tempo dato e un tempo ricevuto; è incontro tra il temporale e l’eterno: questo è l’ambito delle relazioni che costituiscono la sostanza della vita.

Non è possibile qui passare in rassegna tutti i brani dove nella Bibbia viene tematizzato il tempo nel suo scorrere, il tempo dato all’uomo, il momento favorevole e adatto alle sue scelte – anche soltanto l’elenco del vocabolario utilizzato in questo campo semantico sarebbe lunghissimo – diciamo unicamente che esso attraversa tutti gli scritti in quanto espressione di una esperienza spirituale di un Dio sovrano della storia che si manifesta nei tempi concreti e limitati dell’uomo nella sua vicenda terrena.

Se ci limitiamo al Primo Testamento, potremmo sintetizzare dicendo che il tempo dell’uomo è nelle mani di Dio: “nelle tue mani, Signore, sono i miei tempi” (Sal 31,16); per questo sale da lui la preghiera: “insegnaci a contare i nostri giorni e giungeremo alla sapienza del cuore” (Sal 90,12).

 

Sul concetto di tempo hanno riflettuto principalmente i testi di tipo sapienziale; è un ritornello tipico quello che “ogni cosa ha il suo tempo”: un albero porta frutto “a suo tempo” (Sal 1,3); “Tu fai spuntare la costellazione a suo tempo” (Gb 38,32); “una parola a suo tempo com'è deliziosa” (Pr 15,23); ma è soprattutto il Siracide che tenta una sintesi teologica sul tempo, affermando che Dio si mostra come provvidenza, predisponendo ogni cosa a suo tempo per il bene dell’uomo, e che di conseguenza è prerogativa dell’uomo saggio l’accorgersi di tutto questo (Sir 39,16.33-34):

 

16 Quanto sono belle tutte le opere del Signore, e ciascuno dei suoi ordini si realizza a suo tempo.

Non deve dirsi: "perché questo? perché quello?" Perché ogni cosa avrà la sua soluzione a suo tempo (cf. v. 21.31).

33 le opere del Signore sono tutte buone, egli provvede a suo tempo ad ogni necessità.

34 Non deve dirsi: «Questo è peggiore di quello», perché tutto sarà riconosciuto giusto a suo tempo.

 

La sua è una visione che può apparire troppo semplice e ottimistica a chi si trova nella prova o nello sconforto, in una situazione in cui non vede più il senso delle cose e il male sembra prevalere; forse è indirettamente anche una risposta di tipo apologetico a chi, sempre tra gli scrittori ebraici, con maggiore realismo prende atto della complessità insita nella realtà, e della incapacità dell’uomo di venirne a capo completamente. L’autore a cui alludiamo è il Qohelet.

 

 

Dio ha fatto bella ogni cosa a suo tempo:
la riflessione del Qohelet (3,1-15)

 

Il brano biblico divenuto più famoso sul tema del tempo è senz’altro il piccolo poema che troviamo nel più filosofo e “razionalista” – se si può usare questa espressione moderna per un autore antico - tra gli scrittori sacri, il Qohelet (3,1-15):

 

1 Per tutto c' è un momento[1], un tempo[2] per ogni cosa sotto il cielo:

 

2 [c’è] un tempo per nascere[3], e un tempo per morire,

un tempo per piantare, e un tempo di sradicare ciò che si è piantato,

 

3 un tempo per uccidere, e un tempo per curare,

un tempo per demolire, e un tempo per edificare,

 

4 un tempo per piangere, e un tempo per ridere,

un tempo per fare lutto, e un tempo per danzare,

 

5 un tempo per gettare pietre, e un tempo per raccogliere pietre,

un tempo per abbracciare, e un tempo per ritrarsi da abbracci,

 

6 un tempo per cercare, e un tempo per lasciar perdere,

un tempo per conservare, e un tempo per gettare via,

 

7 un tempo per strappare, e un tempo per ricucire,

un tempo per tacere, e un tempo per parlare,

 

8 un tempo per amare, e un tempo per odiare,

un tempo di guerra, e un tempo di pace.

 

 

 

9 E quale vantaggio, per chi agisce, da ciò per cui si affanna?

 

 

 

10 Ho visto l'occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino.

11 Egli ha fatto bella ogni cosa a suo tempo: egli ha posto nel loro cuore anche la nozione di eternità[4], tuttavia l’uomo non riesce a scoprire da capo a fondo l'opera fatta da Dio.

 

12 Così ho capito che per loro non c' è niente di meglio che starsene allegri e fare il bene nella vita,

13 e ancora: che un uomo mangi e beva e veda il bene nella sua fatica, questo è un dono di Dio.

 

14 Ho capito che tutto ciò che Dio fa, sarà per sempre, non c’è niente da aggiungervi e niente da togliervi. Dio ha fatto così perché lo si tema.

15 Ciò che già è stato, è [adesso], ciò che sarà, già è stato. Dio cerca ciò che è passato.

 

 

Se questo è il brano più conosciuto non significa tuttavia che sia facile la sua comprensione. Di fronte a certe espressioni può nascere infatti un forte disagio: “[c’è] un tempo per uccidere... per demolire... per strappare... per odiare”! (vv. 3.7.8)

Inoltre ad una lettura superficiale può sembrare che il Qohelet giustifichi un atteggiamento fatalista, rassegnato ed assieme gaudente – del resto ampiamente riscontrabile nella società attuale – quella specie di “filosofia dell’effimero” che spinge tanti a spremere dalla vita – e subito! - tutto ciò che può dare piacere, allegria, godimento, evitando il più possibile e a qualsiasi costo ciò che comporta fatica, sacrificio, lotta nell’attesa.

Effettivamente il Qohelet osserva e prende atto di ciò che l’uomo di ogni epoca può sperimentare e confermare, se si mette a riflettere con onestà: egli non è padrone del suo tempo e con tutto il suo affannarsi non può stabilire che avvenga questa o quella cosa, non può decidere che vengano soltanto i momenti “buoni”, ma soprattutto non può evitare la sofferenza e tanto meno determinare la durata dei suoi giorni (cf. anche Lc 12,25).

Per questo, tutto ciò che l’uomo compie, di positivo e negativo – e che tende a ripetersi uguale in tutte le epoche -  ha in sé qualcosa che lo rende sempre provvisorio e relativo: è la grande tensione che si crea tra il momento - la situazione provvisoria - e l’eternità (entrambi i concetti temporali sono presenti nel nostro poema; cf. v. 1 e v. 11).

Eppure la differenza determinante presente nel Qohelet rispetto a quella filosofia spicciola è rappresentata dalla prospettiva del dono: tutto è dono di Dio (v. 13).

 

Affinando lo sguardo...

 

Innanzitutto notiamo la struttura del brano: il chiaro inizio al v. 1, che ne costituisce l’introduzione e una sorta di titolo: “C’è un tempo per ogni cosa”.

Segue poi (vv. 2-8) una serie di quattordici coppie di opposti, ciascuno segnato all’inizio dalla ripetizione della stessa parola (tempo), una sorta di elenco di momenti della vita e dell’agire dell’uomo espressi da verbi all’infinito (ad eccezione del v. 8b, dove abbiamo due sostantivi). Tutte queste evenienze, presentate nella polarità del loro verificarsi, pur non essendo esaustive, intendono inglobare tutte le attività dell’uomo (cf. il numero 7 e i suoi multipli, simbolo di totalità), comprese tra il nascere e il morire (v. 2).

L’interrogativo del v. 9 rappresenta una sorta di transizione, di stacco riflessivo che conclude ciò che precede (prima parte) e introduce ciò che segue (seconda parte).

La seconda parte (vv. 10-15) è la risposta del Qohelet alla domanda che egli si è posto al v. 9, il frutto della sua riflessione sul senso del susseguirsi dei vari momenti della vita. Per questo, il modo migliore per spiegare la prima parte è quello di assumere prima di tutto la sua interpretazione, il suo angolo visuale. Per la sua collocazione e la sua funzione è utile aver presente il primo capitolo, specialmente i vv. 13-18, dove la riflessione presenta molti punti di contatto.

 

Per tutto c' è un momento, un tempo per ogni cosa sotto il cielo (v. 1):

 

Per la tradizione sapienziale tradizionale questa affermazione era conosciuta e suonava come una massima, un proverbio in cui rintracciare la provvidenza di Dio, lasciando sottintendere anche che il saggio può conoscere i “momenti propizi”. Il seguito del poema e la sua spiegazione faranno emergere una critica sottile e perfino ironica del Qohelet: è vero che tutto segue un disegno provvidente di Dio, e che l’uomo può in qualche modo percepire la grandezza di questo disegno nell’accadere dei singoli momenti, tuttavia per quanto possa essere saggio, non è in grado di discernere totalmente quando essi accadono e qual è l’azione da intraprendere o semplicemente da subire (cf. v. 11).

 

[c’è] un tempo per piangere, e un tempo per ridere,

un tempo per fare lutto, e un tempo per danzare (v. 4):

 

È il doppio parallelismo che tra tutti gli altri mette più in luce la dimensione psicologica, i sentimenti di gioia e tristezza che fanno parte dell’interiorità dell’uomo: ci sono momenti in cui non si può fare a meno di piangere e di fare lutto, la sofferenza non viene risparmiata a nessuno; epperò nella vita deve trovare posto anche la festa, la leggerezza del ridere, scherzare e danzare...

 

[c’è] un tempo per gettare pietre, e un tempo per raccogliere pietre,

un tempo per abbracciare, e un tempo per ritrarsi da abbracci (v. 5):

 

Il primo parallelismo è uno dei passi più difficili da interpretare. Che vuol dire “gettare pietre”? Forse “fare la guerra”? E quindi l’opposto significherebbe “fare la pace”? Oppure il dissodare il terreno per piantare? Molti commentatori propongono l’interpretazione che si trova nel Midrash Rabbah secondo la quale qui si tratta di metafore per i rapporti sessuali; questa visuale si accorderebbe con il secondo stico; l’abbracciare o ritrarsi da abbracci tuttavia può e deve essere inteso anche in senso più ampio, come espressione di amicizia.

 

Riguardo alle difficoltà che possono nascere dal considerare tempi “opportuni” anche l’uccidere, il demolire e l’odiare, va osservato che nei vv. 2-8 il Qohelet si astiene da ogni giudizio morale: si tratta piuttosto di una descrizione della realtà, dell’esperienza concreta verificabile nella storia. Gli uomini continuano ad usarsi violenza e ad uccidere altri uomini (cf. le cronache di assassini, atti di terrorismo, esecuzioni capitali, aborti...).

 

Per chi ha attraversato il poema compiendo tutti gli sbalzi degli opposti ed è giunto al sollievo di sentire che la parola finale è quella così consolante e pregnante per l’ebreo, shalom, il v. 9 lo riporta subito alla “scomodità” di andare oltre ogni soluzione troppo sbrigativa:

 

E quale vantaggio, per chi agisce, da ciò per cui si affanna?”

 

A che serve tutto l’agire faticoso – e spesso vorticoso - dell’uomo se non ne vede il senso?

Questa domanda in qualche modo mette in questione ciò che è stato detto appena prima (di qui la sottile ironia verso le “idee chiare e distinte” di certa tradizione rassicurante); a che serve sapere che c’è un tempo per ogni cosa se l’uomo non riesce a coglierlo?

Bisogna concludere forse che non esiste risposta? Oppure che l’unica risposta possibile è quella pessimista?

 

Eternità e gioia di vivere

 

C’è una risposta secondo il Qohelet, essa è meno semplice di quanto a volte ci vogliono far credere, ma è ampiamente positiva, come dimostra nella seconda parte del brano (vv. 10-15).

 

Significativamente abbiamo qui una delle più alte concentrazioni del nome di Dio rispetto a tutto il libro (sei volte אלהים - ´élöhîm in sei versetti)[5], e altre due volte è soggetto sottinteso (v. 11a); di queste ricorrenze, due è soggetto del verbo “dare” (v. 10 e 11), e una volta si parla di “dono di Dio”: questa osservazione già orienta il lettore a cogliere il senso teologico dell’esperienza, dove si nasconde un’agire provvidente di Dio: egli “dà” in vista del bene e della felicità dell’uomo.

 

Se ci domandiamo quale sia “l’occupazione che Dio ha dato agli uomini perché vi si affatichino” (v. 10), bisogna riandare al primo capitolo: “Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggezza tutto ciò che si fa sotto il cielo. È questa una occupazione penosa che Dio ha imposto agli uomini, perché in essa fatichino” (v. 13; cf. vv. 13-18).

Ecco ciò che Dio ha dato come compito agli uomini: la ricerca del senso di ciò che avviene “sotto il sole”, il tentativo faticoso di decifrare la realtà.

E il desiderio dell’uomo di ricercare è suscitato da Dio stesso, che ha messo nel suo cuore la “nozione di eternità” (עלם - `öläm, v. 11) [6]. Questa “virtuale visione d’insieme” che Dio ha posto nel cuore dell’uomo fornisce la possibilità di discernere i momenti e le situazioni che si presentano nella vita (vv. 2-8); ed è quindi questa la nozione di eternità che si pone in rapporto dialettico con l’esperienza empirica dei momenti fugaci (i “tempi” dei vv. 2-8) che l’uomo si trova a vivere.

 

Sempre avendo in mente la domanda del v. 9 alla luce di quanto abbiamo appena detto, la seconda parte del brano ci dà una seconda risposta positiva: la ricerca di senso, pur essendo faticosa, è connessa con la gioia di vivere (vv. 12-13). Qui troviamo uno straordinario – e per certi versi inatteso - invito alla gioia, a gustare la bellezza dei momenti dati (il mangiare e il bere richiamano il senso della festa, del banchetto, dell’amicizia); tutto il bene, il bello e ciò che rallegra il cuore dell’uomo, è dono di Dio! (v. 13).

 

 

“Godersi la vita”, dono di Dio

È facile costatare che per il Qohelet – come del resto per tutti noi - riflettere sul senso del tempo equivale a interrogarsi sul senso della vita, dal momento che l’attenzione non è per il tempo in sé, ma per ciò che avviene e qualifica questo tempo. Perciò hanno colto nel giusto quei commentatori che vedono in questo brano uno dei passaggi chiave per interpretare il senso di tutto libro.

 

Di fronte alla tentazione fatalista di pensare che tutto si svolga senza alcun ordine, in una sorta di caos senza senso – e questo può risultare da una lettura superficiale e affrettata della realtà - il Qohelet afferma chiaramente che invece “c’è un tempo per ogni cosa” e che “Dio ha fatto bella ogni cosa a suo tempo”; e se anche “l’uomo non riesce a scoprire da capo a fondo l’opera di Dio”, non significa che essa non gli si presenti in ogni evento e situazione.

Dio sa infatti qual è il tempo giusto per ogni cosa (3,1.11). Egli vede e sa al di là delle apparenze e, al contrario di noi, autori di opere effimere, ciò che lui compie “è per sempre, non c’è nulla da aggiungervi e nulla da togliervi”, per questo noi dovremmo temerlo (3,14) - cioè rispettare fino in fondo la sua alterità senza volerla ridurre e incasellare nella nostra logica limitata - ed essere aperti nei confronti del suo mistero.

Questo esclude ogni "uso" di Dio e della religione secondo i nostri schemi e per i nostri calcoli: è necessario credere "nonostante", e non "perché".

 

Esiste quindi un progetto, un disegno superiore, soltanto che all’uomo non è dato conoscerlo se non a sprazzi.

E poiché non sa che cosa può accadere, allora “non c’è niente di meglio che starsene allegri e fare il bene nella vita”, perché quando “l’uomo mangia, beve e vede il frutto della sua fatica” sa che questo è dono di Dio; quando egli incontra le cose belle che Dio ha fatto e che sono segno della sua prodigalità, può essere sicuro (una cosa sicura tra le tante incertezze!) che sono un dono e che Dio vuole che egli ne goda.

 

Il Qohelet non offre una risposta esauriente alla grande domanda sullo scorrere del tempo e sul rapporto tra istante ed eternità, per farlo, bisognerebbe tracciare un quadro completo del progetto divino, e ciò è impossibile agli esseri umani. Ma non c'è dubbio che questo progetto esiste come è vero che Dio esiste, ed è anche vero che l'uomo è chiamato a discernere i segni di questo progetto nelle situazioni e nei momenti dati nella vita di ogni giorno, riconoscendovi il dono buono di Dio.

A volte questa ricerca può diventare dolorosa e scoraggiante, specialmente quando l'uomo si scontra con la dura realtà rappresentata dal fatto che egli non è in grado di trovare il significato profondo delle cose, ma questi sono i momenti in cui maggiormente si innalza la dignità umana.

D’altra parte non ci si può accontentare delle risposte, spesso troppo semplici, fornite dal "sistema di pensiero tradizionale" (nei confronti del quale usa una sottile ironia): la vita è più complessa e il suo mistero è troppo grande per essere contenuto in un qualunque dogmatismo; il dubbio è dunque ammesso e la crisi può diventare una grande occasione di crescita.

 

Allo stesso tempo è saggio essere soddisfatti del proprio lavoro e assaporare la vita con le sue gioie nel momento presente, vedendovi dei doni di Dio, rimanendo pronti a cogliere l'ora propizia, e conservando il timore di Dio, l’atteggiamento di sottomissione fiduciosa alla sua volontà.

Il suo messaggio resta di grande attualità per l'uomo di oggi, spesso distratto e tentato dalla superficialità, ma soprattutto incapace di “godersi la vita” in modo davvero umano, cioè scoprendo il dono inestimabile che ha ricevuto da Dio. Questo testo, ma in generale tutto il libro del Qohelet, può essere visto come una ricca catechesi sul “piacere”, un’educazione a ciò che anche umanamente procura vera gioia e permette di apprezzare il bello che c’è nella vita, riconoscendo in tutto il dono di Dio.

 

©   Pino Pulcinelli   2003

 

 

 

 



[1] Nell’originale ebraico: זמן ( zemän ), “tempo stabilito, fissato; la stagione”; nella traduzione greca della LXX: chrónos.

[2] Ebraico: עת ( `ët ), è quello che ricorre poi uguale 14 volte nei vv. 2-8, significa “tempo” non in senso di durata, quanto piuttosto di singolo momento, e quindi può essere interpretato come “istante da cogliere, occasione favorevole”; in greco: kairós. Tra il primo e il secondo termine non c’è una grande differenza di significato; probabilmente il primo è stato usato come sinonimo del secondo.

[3] L’ebraico גגדת ( läleºdet ) si potrebbe tradurre anche “generare” (così interpreta la LXX: tekeîn): quindi un’azione che può dipendere dall’uomo, al contrario di “nascere” in cui non si può scegliere; ma “nascere” esprime meglio l’antitesi con il “morire”.       

[4] Ebraico: עלם ( `öläm ); greco: aiôn.

[5] Un’altra l’abbiamo da 4,17 a 5,6 (6 volte).

[6] È un noto problema esegetico la traduzione e quindi l’interpretazione del termine ebraico עלם ( `öläm ); il significato principale è quello di “durata”, “tempo lungo o illimitato” (di qui la traduzione “eternità”; cf. anche la ricorrenza al v. 14); nel nostro contesto (si tratta delle opere di Dio) può avere anche la sfumatura spaziale; si avrebbe perciò “un senso di totalità delle cose”, “una certa visione d’insieme” (P. Sacchi).